Una grande giornata di festa quella del 31 gennaio. I tanti fedeli che vi hanno partecipato a Valdocco ed in Basilica Maria Ausiliatrice si sono stretti intorno a San Giovanni Bosco portando le personali preghiere e ringraziamento.

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Ore 11:00 – La celebrazione presieduta dall’Arcivescovo di Torino

Omelia dell’Arcivescovo di Torino, Mons. Cesare Nosiglia, in occasione della Santa Messa delle ore 11,00 per la Festa di Don Bosco. (Torino – Basilica Maria Ausiliatrice).

«Chi accoglie un bambino,un ragazzo o giovane nel mio nome accoglie me» ci dice il Signore.

Video della Omelia

Festa di Don Bosco 2019 – omelia Mons. Nosiglia

Omelia di Mons. Cesare Nosiglia nel giorno della Festa di Don Bosco, nella basilica di Maria Ausiliatrice di Torino Valdocco

Publiée par Salesiani Piemonte, Valle d'Aosta e Lituania sur Vendredi 1 février 2019

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“Accoglienza significa anzitutto ascolto, primo passo educativo da porre in atto verso le nuove generazioni. Anche il Papa l’ha ribadito al Sinodo dei giovani. Ascoltare i giovani è dunque un impegno forte e chiaro che ci interpella tutti. Don Bosco diceva che l’educazione è una questione di cuore. Per educare un giovane bisogna che lui senta il nostro cuore che lo ama, che lo ascolta e l’accompagna passo passo senza imposizioni o divieti, ma con autorevolezza che nasce dalla stima che si ottiene come educatori, mediante non solo le parole ma i fatti, e la testimonianza coerente della propria vita.

Certo oggi viviamo immersi in un forte e tumultuoso cambiamento culturale in atto che ha spiazzato molte famiglie in campo educativo. Oggi viviamo in un mondo di super informazione, che si avvale di nuovi linguaggi affascinanti e ricchi di sempre nuovi stimoli e interessi. Questo è un dato positivo, ma rischia paradossalmente di isolare ancora di più la persona dentro un mondo virtuale e soggettivo da cui diventa difficile uscire per dialogare e rapportarsi poi con l’altro e con gli altri. Si impoveriscono così i rapporti interpersonali e la comunicazione verbale ed esperienziale tra i vari soggetti educativi. A questa carenza si supplisce spesso con i tanti servizi e proposte, che si rovesciano sugli adolescenti e giovani e accontentano le loro pulsioni occasionali e momentanee, epidermiche, senza lasciare traccia dentro il cuore.

È necessario che i vari soggetti coinvolti nell’ambito educativo si parlino e si incontrino su una piattaforma comune di indirizzi e di valori condivisi. Genitori, docenti, sacerdoti e religiose, animatori dei vari ambiti del vissuto sociale, operatori della comunicazione, istituzioni pubbliche, sono chiamati a lavorare insieme condividendo un obiettivo comune che è quello di incentrare ogni intervento sulla persona. È urgente che i ragazzi e giovani possano avere interlocutori disponibili ad ascoltarli e a camminare con loro condividendone le aspirazioni e le domande, le sfide e le provocazioni con spirito non paternalistico, ma amicale e sereno.

Bisogna dare vita a un vero e proprio patto educativo tra famiglia, scuola, comunità civile e religiosa e gli stessi ragazzi e giovani, rendendosi tutti responsabili di una testimonianza di vita coerente e sincera. Il fine non è quello di catturare o di orientare su binari precostituiti, ma di sollecitare le risorse positive dei giovani su valori e proposte ricche di umanità e di spiritualità.

Vale la pena qui ricordare il metodo preventivo di don Bosco che amava i giovani perché erano giovani, senza altre specificazioni. Li cercava là dove erano, per la strada o in carcere, nelle periferie e si rapportava a loro così com’erano senza dare l’impressione di volerli cambiare a tutti i costi. Su questo base di amicizia e di rispetto faceva leva sulle loro risorse che sempre valorizzava in ogni giovane anche il più  aggressivo e caratteriale.

Un secondo aspetto che vorrei richiamare è la difficoltà che oggi si riscontra circa il rapporto intergenerazionale, che si accompagna alla assolutizzazione di un individualismo aggravato dai social, rispetto all’esperienza comunitaria. La personalizzazione dei rapporti con ogni singolo ragazzo e giovane è la via decisiva, se si vuole stabilire un dialogo sincero e proficuo. Quello che non passa per la coscienza e la sensibilità e le scelte del singolo resta improduttivo sul piano educativo.

Nello stesso tempo però, e in modo contraddittorio, l’omologazione al gruppo dei pari è altissima e la paura di non essere accettati o di essere rifiutati o presi in giro è la cosa che più fa soffrire e da rifuggire ad ogni costo. Due poli che in fondo sono sempre esistiti, ma che oggi hanno dato vita ad una separatezza culturale, oltre che ambientale ed educativa, delle nuove generazioni verso gli adulti, genitori e non, e verso gli anziani. Questo fatto rappresenta uno degli abbagli più negativi della nostra società e della stessa pastorale della Chiesa. Isolare i ragazzi e i giovani dal resto della comunità civile ed ecclesiale, chiudendoli in luoghi ed esperienze magari interessanti e gioiose ma rivolte solo a loro in un mondo a sé separato dal resto dove possono incontrare solo coetanei, senza mai un dialogo e confronto con gli adulti e gli anziani, conduce ad un impoverimento notevole sia la comunità che i giovani stessi e la loro crescita.

Credo che qui stia un nodo educativo di fondo da sciogliere: ogni sforzo verso i giovani può trovare una radice di nuova linfa e vigore a partire dalla famiglia aiutata ad essere soggetto primo e responsabile della sua crescita e di quella di tutti i suoi membri. È masochismo quello di una società che non sostiene le nascite e non offre alla famiglia un sostegno anche economico forte e continuato per questo scopo.

Lo stesso si dica per quella insufficiente politica di prevenzione e di sostegno alla famiglia idonea a promuovere il suo impegno verso gli anziani costretti sempre più spesso a trovare posto in strutture di accoglienza (con costi sociali ed umani amplissimi) anche quando stanno bene e sono autosufficienti. La presenza degli anziani nelle case e dei nonni verso i loro nipoti rappresenta oggi uno dei fattori più positivi anche sul piano educativo delle nuove generazioni. Lo stesso vale per ogni forma di disabilità di cui la famiglia, in primo luogo, può essere, se adeguatamente sostenuta, la prima protagonista e responsabile.

Insieme alla famiglia è necessario dare vita a una rete di accompagnamento fatta di luoghi, occasioni ed iniziative di incontro tra generazioni, che permettano di arricchirsi dei doni gli uni degli altri. Penso in particolare agli oratori che, a mio avviso, rappresentano anche oggi una realtà di prim’ordine per promuovere iniziative di comunione e di incontro tra le generazioni. Ricuperare la centralità di ogni singola persona, della sua famiglia e comunità  nel campo educativo significa porre le premesse per una nuova civiltà e società dove il futuro è non solo assicurato ma gestito già nel presente con l’apporto delle diverse componenti decisive e fondamentali che ne garantiscono la continuità e la sussistenza.

Una società più a misura di persona e di famiglia significa un mondo meno anonimo ed estraneo e più vivibile, perché ricco di relazioni coinvolgenti e interessate, solidali e amiche dove ogni ragazzo e giovane viene accolto per se stesso e riconosciuto, come ci insegna don Bosco, soggetto attivo e responsabile, prima che destinatario di servizi e di offerte, sia in campo educativo e religioso che sociale.

Video della celebrazione

Diretta – Festa di Don Bosco

Segui in diretta dalla basilica di Maria Ausiliatrice le celebrazioni eucaristiche delle ore 11.00 e delle ore 18.30 in occasione della festa di San Giovanni Bosco. #WeAreDonBosco #IAmSalesian #DonBosco #31Gennaio

Publiée par Missioni Don Bosco ONLUS sur Jeudi 31 janvier 2019

Street Art

A cura di Don Gianmarco Pernice & Missioni don Bosco


Ieri abbiamo passato un bellissimo pomeriggio qui a #Valdocco, tutti insieme per festeggiare #DonBosco. Grazie a don Gianmarco dell'Oratorio Agnelli, appassionato di street art, e ai ragazzi che si sono divertiti con spray e bombolette! #WeareDonBosco

Publiée par Missioni Don Bosco ONLUS sur Vendredi 1 février 2019

“Sull’onda dell’entusiasmo che ci ha travolti in seguito alla realizzazione del graffito Don Bosco Story che lo street artist Mr. Wany ha realizzato in occasione del 150° anniversario della Basilica di Maria Ausiliatrice, abbiamo organizzato, insieme all’oratorio Don Bosco Agnelli di Torino, un’iniziativa che coinvolge i giovani che gravitano intorno a Valdocco”.

Ore 18:30 – La celebrazione presieduta da don Francesco Cereda

La celebrazione serale, insieme con i giovani del Movimento Giovanile Salesiano, è stata presieduta da don Francesco Cereda, vicario del Rettor Maggiore.

Video della Omelia

Festa di Don Bosco 2019 – omelia don Francesco Cereda

Omelia di don Francesco Cereda nel giorno della Festa di Don Bosco, nella basilica di Maria Ausiliatrice di Torino Valdocco

Publiée par MGS Piemonte, Valle d'Aosta e Lituania sur Vendredi 1 février 2019

Video della celebrazione

Diretta – Festa di Don Bosco

Segui in diretta dalla basilica di Maria Ausiliatrice la celebrazione eucaristica delle ore 18.30 in occasione della festa di San Giovanni Bosco. #wearedonbosco #31gennaio

Publiée par Missioni Don Bosco ONLUS sur Jeudi 31 janvier 2019

In preparazione alla festa di don Bosco

La celebrazione serale, insieme con i giovani del Movimento Giovanile Salesiano, è stata presieduta da don Francesco Cereda, vicario del Rettor Maggiore.

Martedi 29 gennaio

Veglia di preghiera itinerante all’interno dei cortili della casa di don Bosco. Presente anche lo scrittore torinese Fabio Geda che nell’occasione ha condiviso alcuni ricordi personali sul Santo dei Giovani.

Domenica 27 gennaio

Domenica 27 gennaio, alle ore 16:30, presso la Basilica Maria Ausiliatrice – Valdocco – si è tenuto un momento di intrattenimento musicale del gruppo orchestrale giovanile indipendente Archè – orchestra.

Famiglia Cristiana - Fabio Geda

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“Quello che mi ha sempre affascinato di don Bosco? Anzitutto il suo essere “uomo del fare” e poi la sua grande intuizione che per educare ci si deve sporcare le mani, stare con i ragazzi, mettersi alla loro altezza. Una fatica che oggi pochi riescono a fare, a partire dal sistema scolastico”.

A dirlo non è uno qualsiasi, ma l’ex-allievo salesiano Fabio Geda, scrittore torinese, una laurea in Scienze della comunicazione, ma poi passato a fare il narratore e l’educatore nei servizi sociali.  S’era fatto conoscere al grande pubblico con il fortunato Nel mare ci sono i coccodrilli, che nel 2010 ha ricostruito la vicenda del giovanissimo profugo afgano Enaiatollah Akbari.

Oggi, 31 gennaio, giorno in cui la Chiesa ricorda San Giovanni Bosco, esce il suo nuovo libro “Il demonio ha paura della gente allegra. Di don Bosco, di me e dell’educare” (Solferino).

Per spiegare la grandezza di don Bosco partirei dall’immagine del “cortile”: il luogo privilegiato dal santo per l’incontro e della relazione tra l’adulto e il ragazzo. Quello che mi ha sempre appassionato del “cortile” è che è una delle risposte più efficaci all’eterno problema che attraversa tutta la storia delle relazioni tra vecchie e nuove generazioni. L’adulto fatica a stare dentro la relazione coi giovani. Preferisce pontificare dalla cattedra, fornire pillole di saggezza, ma senza sporcarsi le mani. San Giovanni Bosco aveva invece capito che per educare si deve sudare, impolverarsi assieme ai ragazzi”.

Perché  ha definito don Bosco “uomo del fare”?   

“Perché più che dire tante parole su di sé e sul proprio metodo educativo, ha agito; s’è, appunto, sporcato le mani, dando l’esempio. Ha scritto tanto, certo, ma su altri argomenti.  Sull’educazione, invece, solo un libricino sul “Sistema preventivo”. Mi affascina questa figura di prete che, arrivato a Torino nel 1841,  s’è trovato circondato dai tanti migranti d’allora che scendevano dalla Savoia, dalle montagne e dalle campagne e arrivavano nel capoluogo piemontese  per fare i mestieri più umili; e ha scelto di vivere la strada assieme a loro. E’ questo esempio e questa coerenza personale che convincono”.

Una lezione, quindi, anche per gli educatori di oggi?

“Non solo di oggi, ma sempre: l’educazione deve passare comunque attraverso il fare più che il dire. E su ciò dovrebbe riflettere un po’ di più la scuola d’oggi”.

Cioè?

“Molto spesso le nostre classi sono piene di ragazzini annoiati con professori che parlano al deserto. La pedagogia scolastica dovrebbe utilizzare più le esperienze e le ricerche che le lezioni frontali”.

Forse fare l’educatore oggi è più difficoltoso rispetto al passato?

“Direi di sì. Sperimento quotidianamente una grande fatica degli educatori. Arriverei ad affermare che è difficilissimo, oggi in Italia, farlo per tutta la vita. L’insegnante oggi è carne da cannone; insegnare è mestiere faticosissimo, da prima linea, da trincea. Non è un caso se molti educatori, dopo un po’,  mollano e cercano un’altra occupazione meno logorante di questa”.   

Lei definisce Don Bosco “Santo sociale”. Ci spieghi…

“E’ in primis l’etichetta che, noi torinesi, siamo abituati a dare a una serie di figure religiose della nostra città operanti nell’800, da don Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo, a Francesco Faà di Bruno, che hanno iniziato ad abitare le periferie e operare con la gente in un modo molto particolare, non paternalistico. E, non lo nascondo, questo è l’aspetto della Chiesa che amo di più: la Chiesa sociale degli ultimi, quella che papa Francesco definisce la Chiesa in uscita”.  

“Il demonio ha paura della gente allegra”. Perché questo titolo?

E’ una frase di don Bosco che mi è sempre piaciuta. Lui è il fondatore della “Società dell’allegria”.  E’ sempre stato poco tollerante di chi si lamentava troppo. L’allegria intesa come “scintilla“, buon combustibile per affrontare le asperità della vita, oserei dire come “ottimismo della volontà”.

Perché affascina ancor oggi la figura di questo sacerdote?

“Credo perché sia percepito come uno di noi, un affabulatore che veniva dalle campagne e, pur avendo fine cultura, che sapeva parlare semplice, spezzare e tradurre il messaggio importante con una battuta, una barzelletta. I giovani d’oggi lo vedono come uno con cui farci volentieri una passeggiata assieme”.

L’Osservatore Romano

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Come si riconosce un prete fedele alla sua vocazione? Dalla «gioia» che sente dentro e che porta al popolo. Un prete che «non è un funzionario», ma che è capace di calarsi nella realtà di ogni giorno guardandola sia «con gli occhi di Dio» sia con «gli occhi dell’uomo». Avendo davanti il modello di san Giovanni Bosco – di cui ricorre la memoria liturgica – nella messa celebrata la mattina di giovedì 31 gennaio a Santa Marta il Papa ha suggerito alcune caratteristiche fondamentali che si dovrebbero ritrovare in ogni sacerdote. La riflessione del Pontefice è partita proprio da un episodio della vita del santo di Valdocco: «Il giorno della sua ordinazione – ha raccontato – la mamma gli ha detto: “Sarai sacerdote, incomincerai a soffrire”». Una frase forte, quasi enigmatica. «Cosa voleva dire – si è chiesto Francesco – quella signora umile, contadina, che non aveva studiato nella facoltà di teologia?». Certamente l’intento di mamma Margherita era quello di «sottolineare una realtà», ma con l’obiettivo anche di «attirare l’attenzione del figlio», di metterlo in allerta, perché se nella vita «lui si fosse accorto che non c’era sofferenza» sarebbe stato quello il segnale che «qualcosa non andava bene». Si tratta, ha spiegato il Papa, della «profezia di una mamma», di una donna semplice «e col cuore pieno dello Spirito». Una domanda che il Pontefice ha riproposto come provocazione attuale. «Io penso: perché un sacerdote deve soffrire? O perché quando incomincia il suo ministero, la sofferenza è un segnale che la cosa va bene?». Certo non significa che il sacerdote sia un «fachiro». La risposta si trova nella scelta di vita operata proprio da don Bosco che, ha ricordato Francesco, «ha avuto il coraggio di guardare la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio». Si è calato pienamente nella realtà in cui si trovava abbracciandone tutte le difficoltà e vivendo tutte le sofferenze che ne derivavano. Egli, ha spiegato il Papa, si è guardato attorno «in quell’epoca massonica, mangiapreti, di un’aristocrazia chiusa, dove i poveri erano realmente i poveri, lo scarto», e «ha visto sulle strade quei giovani e ha detto: “Non può essere!”». Don Bosco, cioè, «ha guardato con gli occhi di uomo, un uomo che è fratello e papà pure, e ha detto: “Ma no, questo non può andare così! Questi giovani forse finiranno da don Cafasso o sulla forca… no, non può andare così”, e si è commosso come uomo, e come uomo ha incominciato a pensare strade per fare crescere i giovani, per fare maturare i giovani. Strade umane». Occhi di uomo, ma non solo. Don Bosco ha «avuto il coraggio di guardare con gli occhi di Dio e andare da Dio e dire: “Ma, fammi vedere questo… questo è un’ingiustizia… come si fa davanti a questo… Tu hai creato questa gente per una pienezza e loro sono in una vera tragedia…”». E così, «guardando la realtà con amore di padre – padre e maestro, dice la liturgia di oggi – e guardando Dio con occhi di mendicante che chiede qualcosa di luce, comincia ad andare avanti». Ecco allora la risposta sull’identità del sacerdote: «il sacerdote deve avere queste due polarità. Guardare la realtà con occhi di uomo, e con occhi di Dio». E ciò significa, ha aggiunto il Papa, «tanto tempo davanti al tabernacolo». Questa duplice capacità di sguardo, ha continuato il Pontefice ricordando la testimonianza del fondatore dei salesiani, «gli ha fatto vedere la strada». Infatti don Bosco non è semplicemente andato dai giovani con il Catechismo e il Crocifisso dicendo: «fate questo…» e impartendo precetti. Se avesse fatto così, ha commentato il Papa, «i giovani gli avrebbero detto: “Buonanotte, ci vediamo domani”». Invece «lui è andato vicino a loro, con la vivacità loro. Li ha fatti giocare, li ha fatti in gruppo, li ha uniti come fratelli… è andato, ha camminato con loro, ha sentito con loro, ha visto con loro, ha pianto con loro e li ha portati avanti, così». È proprio questo «il sacerdote che guarda umanamente la gente, che sempre è alla mano». Ancora oggi a volte i fedeli si sentono dire: «Il sacerdote soltanto riceve dalle 15 alle 17.30». Ma, ha sottolineato il Papa, «tu non sei un impiegato, un funzionario. Ne abbiamo tanti di funzionari, bravi, che fanno il loro mestiere, come lo devono fare i funzionari.
Ma il prete non è un funzionario, non può esserlo». E, rivolgendosi idealmente a ogni sacerdote, il Pontefice ha esortato: «Guarda con occhi di uomo e arriverà a te quel sentimento, quella saggezza di capire che sono i tuoi figli, i tuoi fratelli. E poi, avere il coraggio di andare a lottare lì: il sacerdote è uno che lotta con Dio». C’è in effetti, ha aggiunto Francesco, «sempre il rischio di guardare troppo l’umano e niente il divino, o troppo il divino e niente l’umano: ma se non rischiamo, nella vita, non faremo nulla…». Nella vita accade così: «Un papà rischia per il figlio, un fratello rischia per un fratello quando c’è amore…». E a volte questo può portare «sofferenza» perché «incominciano le persecuzioni, incomincia il chiacchiericcio… “Ah, questo prete, lì, sulla strada, con i bambini, con i ragazzi, e questi ragazzi maleducati che con il pallone mi rompono il vetro della finestra…”, tutto il chiacchiericcio». Ma la strada giusta è quella mostrata da don Bosco. «Oggi – ha detto Francesco – vorrei ringraziare Dio per averci dato quest’uomo, quest’uomo che da bambino incominciò a lavorare: sapeva cosa fosse guadagnarsi il pane ogni giorno; quest’uomo che aveva capito qual era la pietà, qual era la vera verità, quest’uomo che ha avuto da Dio un
grande cuore di padre, di m a e s t ro » . Un esempio che ha offerto al Pontefice un’altra indicazione preziosa e decisiva: «Qual è – si è chiesto – il segnale che un prete va bene», che sta «guardando la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio? La gioia». E, ha avvisato Francesco, «quando un prete non trova gioia dentro, si fermi subito e si chieda perché». Proprio don Bosco, del resto, era «il maestro della gioia». Infatti «lui rendeva felici gli altri ed era sempre felice lui stesso. E soffriva lui stesso». Perciò, ha concluso il Papa, «Chiediamo al Signore, per l’i n t e rc e s s i o n e di don Bosco, oggi, la grazia che i nostri preti siano gioiosi: gioiosi perché hanno il vero senso di guardare le cose della pastorale, il popolo di Dio con occhi di uomo e con occhi di Dio». Don Bosco ha avuto il coraggio di guardare la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio. Che ogni sacerdote lo imiti: guardando la realtà con occhi di uomo e con occhi di Dio.

Famiglia Cristiana - Papa Francesco

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Il calore dei giovani circonda il Papa dalla mattina. Le casacche con la scritta “Turin for young” si vedono ovunque. E l’entusiasmo esplode, ancora più incontenibile, quando il Papa va a rendere omaggio al fondatore dei salesiani, al “prete dei giovani” come l’aveva definito l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, nel salutare il Papa.

Nella basilica di  Maria Ausiliatrice, dopo il momento di raccoglimento e preghiera e l’omaggio floreale che sempre papa Francesco fa a Maria nelle sue visite pastorali, Bergoglio pronuncia il suo secondo discorso della giornata torinese (oltre all’omelia e all’Angelus).

«Ho pensato tanto a cosa dirvi, ma è troppo formale. Lo consegno al rettor maggior perché ve lo faccia conoscere», dice il Papa.

E poi racconta della sua amicizia con don Angel Fernandez Artime. «Di lui mi ha colpito il servizio e l’umiltà», dice il Papa ricordando gli anni in cui il rettor maggiore era stato in Argentina.
Racconta la sua esperienza con i salesiani. «La mia famiglia è molto attaccata ai salesiani. Il mio papà appena arrivato in Argentina è andato dai salesiani nella chiesa italiana. Alla basilica di Maria Ausiliatrice, la parrocchia san Carlo, e ne ha conosciuti tanti. E mio papà subito si è affezionato a una squadra di calcio, che aveva fondato un salesiano! A 500 metri dalla basilica di san Carlo, lì quel salesiano ha fondato una squadra di calcio con i colori della Madonna, rosso e blu. Ma con i ragazzi di strada eh? Subito. Per me è la migliore squadra di Argentina, tante volte campione… Quindi ha conosciuto mia mamma, che abitava a pochi metri, e si sono sposati da un prete che ha seguito me e mio papà tutta la vita. Un missionario salesiano della Patagonia, nato a Lodi, un bravo uomo e grande confessore della famiglia salesiana. Io andavo a confessarmi da lui, mi ha battezzato.. e ha aiutato la mia vocazione. Nel momento di passare dal seminario alla Compagnia di Gesù mi ha aiutato».

Il Papa parla della squadra di calcio fondata da padre Lorenzo Massa con i ragazzi di strada e poi del missionario salesiano da cui si confessava. Bergoglio racconta che, quando la sua mamma, dopo il quinto parto, era rimasta paralitica, per un periodo era andato nel collegio salesiano. E i salesiani lo hanno formato nell’affettività, «Don Bosco, con l’amore, faceva maturare l’affettività dei ragazzi», racconta il Papa.
Perché don Bosco era capace di educare all’affettività avendo avuto la mamma Margherita, mamma «buona, carina e forte. Non si può capire don Bosco senza mamma Margherita. E io mi domando se i salesiani e le salesiane oggi quando si tratta di educare una ragazza fanno vedere cosa faceva questa donna semplic e povera, che ha fatto crescere il cuore del figlio».

Il Papa non ha remore a parlare della Torino di fine ottocento, «massonica, mangiapreti, anticlericale, anche demoniaca. Torino è uno dei punti, demoniaca». E a dire perché che da qui sono usciti tanti santi. Oggi la situazione dei giovani non è cambiata e i salesiani hanno la stessa missione di intercettare i ragazzi che non studiano e non lavorano – il 40 per cento sotto i 25 anni, ricorda il Papa – per educarli ai mestieri d’urgenza, elettricista, idraulico, o mestieri che possono assicurargli un lavoro.
Il Papa ripete la missione alla «educazione di emergenza»  attingendo alla «creatività salesiana» e infondendo loro la gioia, «una cosa che no dimentico mai. La gioia salesiana perché tutto quello che ci ha dato il Signore è bello».

E quindi sì al lavoro perché «con lo stomaco vuoto non si può lodare Dio», ma anche all’educazione a misura di crisi e per dare gioia.

I tre grandi amori di don Bosco, ai quali Bergoglio fa più volte riferimento e che devono essere alla base dell’azione salesiana sono per la Madonna, per l’eucaristia e per il Papa. «Don Bosco non si vergognava della Madonna perché non si vergognava della sua mamma e si fidava di Dio affidandosi alla Madonna».

E con Maria il Papa fa ancora una volta riferimento al ruolo delle donne nella Chiesa spiegando che, a chi gli chiede di far diventare una donna capo di un qualche dicastero lui risponde che quello è un ruolo funzionalista, di burocrazia e che altro è il ruolo della donna: «La donna nella Chiesa ha lo stesso lavoro, per dirlo così, che aveva la Madonna con gli Apostoli nella mattina di Pentecoste. Gli Apostoli senza Maria non andavano: Gesù ha voluto così».
Sull’Eucaristia il Papa chiede di interrogarsi oggi sul come si spiega e sul come si fa entrare i ragazzi nel mistero eucaristico.

E infine l’amore al Papa che significa amore non a una persona, ma alla Chiesa, perchè il Papa è lo sposo della Chiesa «Dietro quell’amore bianco per il Papa c’è l’amore alla Chiesa», ripete Bergoglio.
«Tre amori bianchi» li definisce il Papa che sono la sintesi del pesniero del fondatore dei salesiani di cui si ricordano i duecento anni dalla nascita.

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