Omelia dell’Arcivescovo di Torino, Mons. Cesare Nosiglia, in occasione della Santa Messa delle ore 11,00 per la Festa di Don Bosco. (Torino – Basilica Maria Ausiliatrice).
«Chi accoglie un bambino, un ragazzo o giovane nel mio nome accoglie me» ci dice il Signore.
“Accoglienza significa anzitutto ascolto, primo passo educativo da porre in atto verso le nuove generazioni. Anche il Papa l’ha ribadito al Sinodo dei giovani. Ascoltare i giovani è dunque un impegno forte e chiaro che ci interpella tutti. Don Bosco diceva che l’educazione è una questione di cuore. Per educare un giovane bisogna che lui senta il nostro cuore che lo ama, che lo ascolta e l’accompagna passo passo senza imposizioni o divieti, ma con autorevolezza che nasce dalla stima che si ottiene come educatori, mediante non solo le parole ma i fatti, e la testimonianza coerente della propria vita.
Certo oggi viviamo immersi in un forte e tumultuoso cambiamento culturale in atto che ha spiazzato molte famiglie in campo educativo. Oggi viviamo in un mondo di super informazione, che si avvale di nuovi linguaggi affascinanti e ricchi di sempre nuovi stimoli e interessi. Questo è un dato positivo, ma rischia paradossalmente di isolare ancora di più la persona dentro un mondo virtuale e soggettivo da cui diventa difficile uscire per dialogare e rapportarsi poi con l’altro e con gli altri. Si impoveriscono così i rapporti interpersonali e la comunicazione verbale ed esperienziale tra i vari soggetti educativi. A questa carenza si supplisce spesso con i tanti servizi e proposte, che si rovesciano sugli adolescenti e giovani e accontentano le loro pulsioni occasionali e momentanee, epidermiche, senza lasciare traccia dentro il cuore.
È necessario che i vari soggetti coinvolti nell’ambito educativo si parlino e si incontrino su una piattaforma comune di indirizzi e di valori condivisi. Genitori, docenti, sacerdoti e religiose, animatori dei vari ambiti del vissuto sociale, operatori della comunicazione, istituzioni pubbliche, sono chiamati a lavorare insieme condividendo un obiettivo comune che è quello di incentrare ogni intervento sulla persona. È urgente che i ragazzi e giovani possano avere interlocutori disponibili ad ascoltarli e a camminare con loro condividendone le aspirazioni e le domande, le sfide e le provocazioni con spirito non paternalistico, ma amicale e sereno.
Bisogna dare vita a un vero e proprio patto educativo tra famiglia, scuola, comunità civile e religiosa e gli stessi ragazzi e giovani, rendendosi tutti responsabili di una testimonianza di vita coerente e sincera. Il fine non è quello di catturare o di orientare su binari precostituiti, ma di sollecitare le risorse positive dei giovani su valori e proposte ricche di umanità e di spiritualità.
Vale la pena qui ricordare il metodo preventivo di don Bosco che amava i giovani perché erano giovani, senza altre specificazioni. Li cercava là dove erano, per la strada o in carcere, nelle periferie e si rapportava a loro così com’erano senza dare l’impressione di volerli cambiare a tutti i costi. Su questo base di amicizia e di rispetto faceva leva sulle loro risorse che sempre valorizzava in ogni giovane anche il più aggressivo e caratteriale.
Un secondo aspetto che vorrei richiamare è la difficoltà che oggi si riscontra circa il rapporto intergenerazionale, che si accompagna alla assolutizzazione di un individualismo aggravato dai social, rispetto all’esperienza comunitaria. La personalizzazione dei rapporti con ogni singolo ragazzo e giovane è la via decisiva, se si vuole stabilire un dialogo sincero e proficuo. Quello che non passa per la coscienza e la sensibilità e le scelte del singolo resta improduttivo sul piano educativo.
Nello stesso tempo però, e in modo contraddittorio, l’omologazione al gruppo dei pari è altissima e la paura di non essere accettati o di essere rifiutati o presi in giro è la cosa che più fa soffrire e da rifuggire ad ogni costo. Due poli che in fondo sono sempre esistiti, ma che oggi hanno dato vita ad una separatezza culturale, oltre che ambientale ed educativa, delle nuove generazioni verso gli adulti, genitori e non, e verso gli anziani. Questo fatto rappresenta uno degli abbagli più negativi della nostra società e della stessa pastorale della Chiesa. Isolare i ragazzi e i giovani dal resto della comunità civile ed ecclesiale, chiudendoli in luoghi ed esperienze magari interessanti e gioiose ma rivolte solo a loro in un mondo a sé separato dal resto dove possono incontrare solo coetanei, senza mai un dialogo e confronto con gli adulti e gli anziani, conduce ad un impoverimento notevole sia la comunità che i giovani stessi e la loro crescita.
Credo che qui stia un nodo educativo di fondo da sciogliere: ogni sforzo verso i giovani può trovare una radice di nuova linfa e vigore a partire dalla famiglia aiutata ad essere soggetto primo e responsabile della sua crescita e di quella di tutti i suoi membri. È masochismo quello di una società che non sostiene le nascite e non offre alla famiglia un sostegno anche economico forte e continuato per questo scopo.
Lo stesso si dica per quella insufficiente politica di prevenzione e di sostegno alla famiglia idonea a promuovere il suo impegno verso gli anziani costretti sempre più spesso a trovare posto in strutture di accoglienza (con costi sociali ed umani amplissimi) anche quando stanno bene e sono autosufficienti. La presenza degli anziani nelle case e dei nonni verso i loro nipoti rappresenta oggi uno dei fattori più positivi anche sul piano educativo delle nuove generazioni. Lo stesso vale per ogni forma di disabilità di cui la famiglia, in primo luogo, può essere, se adeguatamente sostenuta, la prima protagonista e responsabile.
Insieme alla famiglia è necessario dare vita a una rete di accompagnamento fatta di luoghi, occasioni ed iniziative di incontro tra generazioni, che permettano di arricchirsi dei doni gli uni degli altri. Penso in particolare agli oratori che, a mio avviso, rappresentano anche oggi una realtà di prim’ordine per promuovere iniziative di comunione e di incontro tra le generazioni. Ricuperare la centralità di ogni singola persona, della sua famiglia e comunità nel campo educativo significa porre le premesse per una nuova civiltà e società dove il futuro è non solo assicurato ma gestito già nel presente con l’apporto delle diverse componenti decisive e fondamentali che ne garantiscono la continuità e la sussistenza.
Una società più a misura di persona e di famiglia significa un mondo meno anonimo ed estraneo e più vivibile, perché ricco di relazioni coinvolgenti e interessate, solidali e amiche dove ogni ragazzo e giovane viene accolto per se stesso e riconosciuto, come ci insegna don Bosco, soggetto attivo e responsabile, prima che destinatario di servizi e di offerte, sia in campo educativo e religioso che sociale.
Cesare Nosiglia Arcivescovo di Torino